Esiste una verità oggettiva? E se si, come possiamo conoscerla? (1)

Introduzione

Il presente articolo vuole avere una pretesa assai elevata: quella di dimostrare in poche battute l’esistenza di una verità oggettiva, contraria ad ogni pretesa relativista, analizzando il concetto di verità nel pensiero di Tommaso d’Aquino. Vuole essere insomma una risposta all'interrogativo esistenziale mosso da Ponzio Pilato durante la Passione di Cristo, ma proprio di ogni uomo che si pone in ricerca: «Quid est veritas?» (Gv 18,38).


Benedetto XVI, nel secondo volume su Gesù di Nazareth, ha riflettuto a lungo sul tema della verità, dedicando ad essa alcune pagine nella parte inerente il processo di Gesù avvenuto nel pretorio. Nella stesura di questo articolo proprio queste pagine, come anche tutto il suo Magistero, sono state davvero illuminanti, guida sicura nello scaturire di una riflessione attenta e seria.

«Che cos’è la verità? La domanda del pragmatico, posta superficialmente con un certo scetticismo, è una domanda molto seria, nella quale effettivamente è in gioco il destino dell’umanità. Che cosa è, dunque, la verità? Possiamo riconoscerla? […] Non solo Pilato ha accantonato questa domanda come irrisolvibile e, per il suo compito, impraticabile. Anche oggi, nella disputa politica come nella discussione circa la formazione del diritto, per lo più si prova fastidio per essa. Ma senza la verità l’uomo non coglie il senso della sua vita, lascia, in fin dei conti, il campo ai più forti». (Benedetto XVI, Gesù di Nazareth, seconda parte, Milano, BUR, 2012, p. 215 e 218)

Questa ricerca della verità non ha potuto non fare riferimento principale ad uno dei più grandi filosofi e teologi Medievali che sia mai esistito, Tommaso d’Aquino, accogliendo l’invito fatto da Leone XIII nell’enciclica Aeterni Patris del 1879, quando esorta «a rimettere in uso la sacra dottrina di San Tommaso e a propagarla il più largamente possibile, a tutela e ad onore della fede cattolica, per il bene della società, e ad incremento di tutte le scienze. - e più avanti - i maestri scelti da Voi con saggio discernimento cerchino di far penetrare negli animi dei discepoli la dottrina di San Tommaso d’Aquino, e mettano in luce lo spessore e l’eccellenza di essa a preferenza di tutte le altre». (Leone XIII, Lettera Enciclica Aeterni Patris, Roma, 1879)

Pertanto verrà fatto particolare riferimento al De veritate q. 1 e alla Summa Theologiæ q. 16, nonché brevemente a tutti quegli autori che hanno contribuito alla formazione del pensiero dell’Aquinate in merito al concetto di verità.


1. La formulazione del concetto: l’alétheia nel pensiero di Aristotele

Un passo decisivo verso la formazione del concetto di verità è stato compiuto da Aristotele, il quale per primo, sottoponendo ad analisi accurata gli atti conoscitivi con cui l’uomo viene in possesso della verità dell’essere, ha formulato una definizione di verità come adeguazione che tutt'ora può considerarsi valida. Alfred Tarski (1902-1983), logico polacco, riprendendo il concetto aristotelico di verità come adeguazione, nella sua opera Semantica e filosofia del linguaggio, sostiene che in Aristotele c’è stata la prima formulazione originale di verità. Aristotele infatti è stato il primo a parlare di corrispondenza o adeguazione. Anzi, per essere più precisi, questo concetto, che unisce il pensare e l’essere, era già presente in forma implicita nel pensiero filosofico di alcuni sofisti e presofisti (Anassagora ed Eraclito in maniera più esplicita), ma con Aristotele la formulazione del concetto di verità assume un carattere più chiaro, sebbene anch'esso non sia totalmente scevro da equivoci.

Secondo Aristotele infatti, la verità è anzitutto una proprietà del pensiero:
«Il vero è l’affermazione di ciò che è realmente congiunto e la negazione di ciò che è realmente diviso; il falso è, invece, la contraddizione di questa affermazione e di questa negazione […]. Infatti il vero e il falso non sono nelle cose (quasi che il bene fosse il vero e il male fosse senz’altro il falso), ma solo nel pensiero; anzi, per quanto concerne gli esseri semplici e le essenze, non sono neppure nel pensiero». (Aristotele, Metaf., VI, 1027b, 21 e ss.)

Giovanni Reale, analizzando la Metafisica di Aristotele, spiega molto bene come il vero (ovvero l’essere) e il falso (il non-essere) consistano in operazioni di connessione e di divisione a livello del pensiero:
«Il vero sta nel connettere le cose connesse (o nel dividere le cose divise) e il falso sta nel dividere le cose non divise (o nell’unire cose non unite). Ora, poiché queste operazioni sono nella mente e non nelle cose, l’ente come vero e come falso si riduce a un ens rationis, […] a un essere puramente mentale». (Giovanni Reale, Guida alla Metafisica di Aristotele; Bari, Laterza, 1997, p. 49)

Dalla sua analisi emerge infatti che nella semplice astrazione di una essenza non le si attribuisce né verità né falsità, ma semplicemente presenza o assenza rappresentativa di quella realtà come è in sé. Il concetto di vero o il falso pertanto subentra in un atto successivo di giudizio.

Secondo Aristotele ancora, il conoscere è sempre uno scire per causas (Aristotele, Fisica, I, 1, 184a, 10), pertanto noi potremmo conoscere la verità di una cosa solamente giungendo alla scoperta della sua causa, «cioè quando dalla semplice constatazione del fatto che è (oti = quod est), riusciamo a stabilirne in modo necessario, universale e specifico il perché è (dioti = propter quid), acquistandone una conoscenza innegabile e scientifica». (B. Mondin, Dizionario enciclopedico del pensiero di S. Tommaso d’Aquino, Bologna, Edizioni Studio Domenicano, 2000, voce: verità)

E a questo proposito Aristotele afferma che è compito peculiare della filosofia la ricerca della verità, a tal punto da ritenere «giusto denominare la filosofia scienza della verità, perché il fine della scienza teoretica è la verità, mentre il fine della pratica è l’azione» (Aristotele, Metaf., I, 982a, 2)

Per Aristotele la verità esiste formalmente in quell'atto che chiamiamo giudizio. Nel momento in cui l’intelletto afferma, ovvero unisce un predicato ad un soggetto, lo definiamo giudizio catafatico; nel momento in cui l’intelletto nega, ovvero separa un predicato ad un soggetto, lo definiamo giudizio apofatico. (Cfr. Aristoele, De interpr., 17, 25 s.) Egli definisce vero e falso in questo modo: «Falso è dire che l’essere non è o che il non-essere è; vero, invece, è dire che l’essere è e che il non-essere non è». (Aristotele, Metaf., IV, 7, 1011b, 26 ss.)

Aristotele pertanto fonda la verità sul principio di non-contraddizione e sul principio del terzo escluso (tertium non datur). Un enunciato o è necessariamente vero, o è necessariamente falso, esso non ha mai la giustificazione della propria verità in se stesso: sia il soggetto, sia il predicato, rimandano ad una realtà esterna che svolge un ruolo di mediazione nelle operazioni conoscitive e di giudizio dell’intelletto. La realtà pertanto è causa della verità dell’enunciato, secondo quanto dice Aristotele nella Metafisica quando afferma: «Non perché noi ti pensiamo bianco tu sei veramente bianco, ma per il fatto che tu sei bianco, noi, che affermiamo questo, siamo nel vero». (Aristotele, Metaf., IX, 9, 1051b, 6 ss.)

È l’intelletto a doversi adeguare alla verità delle cose, sia nell'atto con cui le conosce, sia nell'atto con cui le giudica. Pertanto tra intelletto e verità c’è una sorta di connaturalità, che verrà poi ripresa da Tommaso nella nozione di verum. Infatti l’intelletto si porta mediante un movimento spontaneo verso la natura della cosa e questo suo movimento, essendo naturale, «è sempre retto». (Aristotele, De anim., III, 10, 433a, 26)

Questo processo che avviene tra soggetto e oggetto lo possiamo definire adæquatio, ovvero:

«in quest’atto ciascuno dei due diventa in qualche modo l’altro, assumendo ciò che è proprio dell’altro. A causa di questa adeguazione l’oggetto, trasformato nel proprio del soggetto, acquista la stessa natura universale e intellegibile del soggetto, mentre il soggetto, dopo aver assimilato a sé l’oggetto, a causa del fatto che non si da conoscenza se non del simile mediante il simile (Cfr. Aristotele, De anim., I, 2; 404b, 17s.), lo incorpora in sé e fa proprie le proprietà dell’oggetto». (Tommaso d'Aquino, Sulla verità, a cura di F. Fiorentino, Milano, Bompiani, 2005, pag 47- 48)

Da questo capiamo che nel pensiero di Aristotele il concetto di adeguazione è talmente importante, che una conoscenza senza adeguazione può essere considerata come una conoscenza senza verità.

Sarà proprio su questo concetto di adeguazione, e in particolare sulla rettitudine dell’adeguazione, che si fonderà il pensiero di Anselmo d’Aosta riguardo la verità. 


[Segue...]

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