Esiste una verità oggettiva? E se si, come possiamo conoscerla? (2)

2. Lo sviluppo del concetto: la veritas nel De veritate di Anselmo d’Aosta



Anselmo d’Aosta è stato il primo filosofo che ha dedicato al problema della verità un intero trattato intitolato De veritate, volto a mostrare il sistema della verità cristiana. Esso è stato scritto tra il 1080 e il 1085, insieme al De grammatico e al De libertate arbitrii, utilizzando la forma dialogica tanto cara a Platone. In un primo momento viene dimostrata l’esistenza indefettibile della verità, mentre in un secondo momento ne viene chiarita la natura.

Tutta l’opera è essenzialmente incentrata da Anselmo intorno al concetto fondamentale di rectitudo, ovvero conformità di qualunque cosa che è, al modo di essere vero e immutabile delle idee divine e delle realtà che esse governano: «tutto ciò che è, è veramente perché non è diverso da come è nella somma verità» (Anselmo d'Aosta, De verit., 7; PL 158, 475B).


Sofia Vanni Rovighi, già docente di Storia della Filosofia all’Università Cattolica di Milano, ritiene che la parola "retto" debba essere intesa con il significato di: «è come deve essere».

Secondo Fernando Fiorentino, curatore dell’opera di Tommaso De veritate edita per conto della Bompiani, Anselmo ripropone (pur non conoscendola) una tesi di Aristotele, già citata in precedenza, che poi diverrà centrale nel pensiero di Tommaso d’Aquino, ovvero quella secondo cui «la verità delle cose non dipende dalla verità dell’enunciato, ma è piuttosto la verità dell’enunciato a dipendere dalla verità delle cose» (Tommaso d'Aquino, Sulla verità, a cura di F. Fiorentino, Milano, Bompiani, 2005, pag. 69). Afferma infatti: «Unde non eius veritas, sed causa veritatis eius dicenda est - la cosa vera non è la verità dell’enunciazione, ma ne è la causa» (Anselmo d'Aosta, De verit., 2; PL 158, 469C). Dunque è la verità delle cose a causare la verità dell’enunciato, e non viceversa, poiché la cosa è vera in se stessa. Ma mentre Aristotele propone di guardare nelle cose stesse per verificarne la veridicità, Anselmo ritiene più opportuno «cercare la verità nel discorso stesso».
In questo caso viene un po’ a contraddirsi, perché se le cose, come detto in precedenza, sono la causa della verità del discorso, la verità sarebbe stato più opportuna ricercarla nelle cose stesse come proposto da Aristotele, poiché il discorso non è in grado di trovare fondamento per la propria giustificazione in se stesso.

Anselmo ritiene che per definire un enunciato come vero sia necessaria la compresenza di due caratteristiche fondamentali: la verità dell’enunciato e la sua rettitudine.
Per enunciato retto si deve intendere quell’enunciato che «significa come stanno le cose» (Anselmo d'Aosta, De verit., 2; PL 158, 470C), infatti: «Cum [enuntiatio] significat esse quod est, tunc est in ea veritas et est vera - Quando [l’enunciato] dice che è ciò che è, allora in esso c’è la verità ed è vero» (Id., De verit., 2; PL 158, 469D-470A). Pertanto quando l’enunciato afferma di essere ciò che è, esso risulta parimenti sia retto sia vero, «fa doppiamente ciò che deve: poiché significa ciò che è capace di significare e ciò per cui è fatto» (Id., De verit., 2; PL 158, 470C).

Dunque il ridurre la verità dell’enunciato alla sua sola rettitudine, lascia intuire che per Anselmo il fondamento ultimo della verità non può non trovarsi se non nell’intelletto.
«L’intelletto coglie il vero, quando pensa secondo come deve pensare», pertanto «qualsiasi cosa - sia essa un enunciato, sia l’intelletto sia la volontà, sia una realtà naturale - quando fa ciò che deve fare con la sua operazione, è retta e giusta, e quando è retta e giusta essa non solo fa la rettitudine, ma fa anche la verità. E quando Sant’Anselmo dice fare la verità intende giudicare le cose rettamente» (Tommaso d'Aquino, Sulla verità, a cura di F. Fiorentino, Milano, Bompiani, 2005, pag. 71).

Pertanto, come già detto prima, l’unica verità, alla quale la verità e la rettitudine si devono adeguare è l’intelletto divino, ovvero Dio stesso, che è somma verità e somma rettitudine, ed essendo principio di ogni cosa, ha pensato e disposto ogni cosa secondo la verità e secondo la rettitudine del loro essere e dover essere.
La verità in Anselmo è rettitudine, sebbene verità e rettitudine non siano due cose distinte ma si equivalgano: «si tratta infatti di un’unica realtà designata con due nomi». Ma è più corretto nel suo pensiero parlare di rettitudine perché «Se verità e rettitudine sono nell’essenza delle cose perché le cose sono così come sono nella somma verità, è certo che la verità delle cose è la loro rettitudine» (Anselmo d'Aosta, De verit., 7; PL 158, 475C).

Concludendo, Anselmo ritiene che la causa ultima di ogni verità e di ogni rettitudine sia la verità e la rettitudine della somma verità, ossia di Dio e delle sue necessariae rationes, precisando che: «La verità che è nell’esistenza delle cose è effetto della somma verità ed è causa della verità del pensiero e della verità che è nella proposizione, mentre queste due ultime verità non sono causa di altra verità» (Id., De verit., 10; PL 158, 479A).

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