L'accabadora: una donna che in Sardegna praticava l'eutanasia


In Sardegna risalgono ad antica data le pratiche eutanasiche nei confronti dei malati terminali. 
Con il termine sardo s’accabadóra letteralmente si definisce “colei che finisce”, probabilmente dallo spagnolo acabar (finire, terminare). L’immaginario racconta che sono donne d’età avanzata che “accabavano” appunto, ovvero procuravano la morte a persone la cui agonia diventava inaccettabile. La tradizione voleva che la donna agisse solo in casi del tutto eccezionali. C’era chi le chiamava sacerdotesse della morte e chi le chiamava donne esperte. 


Studi approfonditi e analisi della documentazione rinvenuta presso curie e diocesi sarde e presso musei, hanno accertato la reale esistenza di questa figura che non era benvoluta, ma neppure odiata poiché era indispensabile. 
Ne parla già il comandante di marina William Henry Smith nel 1828, successivamente, nel 1832 circa, l'abate Vittorio Angius racconta che alcune donne e alcuni uomini si rivolgevano a s’accabadora soprattutto in Barbagia. Se ne hanno prove di pratiche fino agli anni venti del ’900, precisamente una a Luras e una a Oristano. 
Mons. Raimondo Calvisi ebbe modo nel 1906, in Bitti, di assistere alla conversazione intervenuta fra la madre di un bimbo morente, e una donna anziana. Gli parve chiaro che la vecchia fosse un’accabadora, dato che la madre rifiutando il suo aiuto, le disse che il figlio il paradiso se lo sarebbe guadagnato da solo. 

L’ultimo caso forse è stato ad Orgosolo nel 1952, ma è evidente che questa pratica era comunque comune sino a pochi decenni fa. Nei paesi infatti la vita era intesa in maniera più concreta, fatta di nascita, di crescita e di morte. E di quest’ultima si parlava spesso e si sapeva che sarebbe venuta prima o poi. La famiglia che ne veniva colpita per un determinato periodo di tempo si allontanava dalla società, ma dalla stessa veniva aiutata, attraverso quegli strumenti di mutuo soccorso che oggi sono stati completamente dimenticati. 

Una delle teorie per giustificare questo tipo di pratica è basata sulle difficoltà di spostamento e di sussidio nei tempi passati, per cui nelle campagne e nei piccoli paesi isolati non esisteva né la medicina ufficiale né tanto meno il medico ed era difficile raggiungere un medico o un ospedale in quanto distanti parecchi giorni di cammino. Bisognava pertanto essere autosufficienti. Per di più in una famiglia un inabile immobilizzato e quindi bisognoso di cure assidue costituiva un aggravamento della condizione familiare già precaria, dal momento che il lavoro agricolo era l’unica loro possibilità di sussistenza. 

Rivolgersi all’accabadora allora veniva considerato come un atto pietoso nei confronti del moribondo, in quanto si evitavano inutilmente lunghe e atroci sofferenze al malato, ma anche un atto necessario alla sopravvivenza dei parenti, soprattutto per le classi sociali meno abbienti. La tradizione vuole comunque che la donna agisse solo in casi del tutto eccezionali, soprattutto quando il moribondo, sofferente e stremato non riuscisse comunque ad abbandonare la vita. Se ricevuta l’estrema unzione il moribondo non moriva, si dice che una “donna esperta” venisse mandata a chiamare. 

Con estrema probabilità proveniva da un altro paese, non troppo distante da quello del nostro sfortunato agonizzante. Una volta andato via il prete, la donna arrivava nella casa del moribondo, sempre di notte, vestita di nero e con il volto coperto poiché nessuno doveva vederla o notarla. La porta della casa veniva lasciata socchiusa e non incontrava nessuno dei parenti del malato, ma entrava direttamente nella sua stanza e rimaneva sola con lui. La donna allora iniziava col togliere dalla stanza del moribondo tutti gli amuleti e le immagini sacre, si poteva immaginare infatti che l’anima non abbandonasse il corpo perché ostinatamente protetta dagli amuleti che ogni sardo che si rispettasse, indossava (questo era in fondo lo scopo delle pungas, quello di impedire alla morte d’accostarsi). Contemporaneamente venivano portati via tutti gli oggetti cari al malato: si credeva in questo modo di rendere più semplice e meno doloroso il distacco dello spirito dal corpo. A questo punto entrava in scena un piccolo giogo in miniatura, da poggiare sotto la nuca dell’agonizzante o sotto il cuscino al fine di alleviare la sua agonia. Se lo spirito non voleva staccarsi dal corpo i motivi potevano essere differenti. Nel caso peggiore si poteva pensare che in gioventù chi stentava ora a morire, avesse commesso uno di quei crimini che non conoscono perdono, come aver spostato una pietra di confine, o peggio ancora bruciato un giogo, oppure aveva ammazzato un gatto. Se tutte queste attenzioni non avevano avuto successo, quando la situazione lo richiedeva, bisognava ricorrere all’uso di maniere un poco più fisiche e s’accabadora non esitava a donare una “bòna morte” (atto pietoso e dignitoso) al malato terminale. 

Lo strumento più utilizzato era una sorta di piccolo martello di legno d’olivo (su mazzolu, del quale si trovano ancor oggi dei reperti) con il quale si colpiva il morente con un colpo secco in un punto preciso del cranio (sulla fronte o dietro la nuca) o del petto; oppure si accovacciava dietro al capezzale e dopo aver stretto la testa del morente tra le sue gambe lo accarezzava e cominciava a cullarlo come fosse un bambino, cantandogli la stessa ninna nanna che si era sentito cantare dalla propria madre, e quando finalmente tornava infante lei lo uccideva. Se non bastava lo uccideva tramite soffocamento con un cuscino. 
Ma l’accabadora non si occupava solo di adulti o anziani morenti, spesso era anche levatrice e poteva capitare che dovesse togliere la vita a neonati che reputava in gravi condizioni fisiche. Essa pertanto conosceva perfettamente l’anatomia umana, ed era capaci di uccidere con metodo e precisione. 
Non risulta che domandasse in cambio alcun compenso, e sembra più probabile svolgesse la sua funzione sociale, anche perché il pagare per dare la morte era contrario ai dettami religiosi e della superstizione. Il suo scopo sociale doveva essere sentito importante, diversamente l’inquisizione l’avrebbe scovata, e bruciata al rogo, imputandole di certo un qualche legame con su tentadori. 

Ancora oggi, in alcuni paesi di Sardegna, quando il moribondo tarda ad esalare l’ultimo respiro, dopo aver tolto tutte le immagini sacre dalla stanza, i parenti avvicinano alla sua testa o al collo un pettine o un giogo per tentare di alleviargli le sofferenze accelerando la dipartita. 

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